Il «day after» del segretario dimissionario
Veltroni racconta la sua verità
Conferenza stampa (in diretta su Corriere Tv) per spiegare le ragioni di una scelta
ROMA - Il giorno dopo le dimissioni dalla segreteria del Pd, Walter Veltroni racconta la sua verità. I suoi sedici mesi alla guida del centrosinistra, le difficoltà di tenere insieme anime e sensibilità politiche diverse che ancora forse non hanno abbandonato la logica della coalizione, tutti insieme ma ognuno per sè, per entrare nell'ottica del partito unitario. E le divisioni interne, soprattutto quelle alimentate dal fronte diessino, su cui tanto si è discusso in queste ultime ore. Walter Veltroni, segretario dimissionario del Pd (Infophoto)
«VOLTARE PAGINA» - Veltroni ha convocato la stampa a Roma per spiegare le motivazioni della sua scelta (segui la diretta su Corriere Tv a partire dalle 11). L'ex sindaco di Roma ha già anticipato che nel suo futuro c'è il lavoro da «semplice deputato», che non si metterà a guidare correnti perché non è nel suo stile. Resterà da vedere se questo sarà un addio dalla scena politica attiva. E quale sarà il futuro del Pd, se anche uno di coloro che si erano impegnati a promuoverlo, Enrico Letta, arriva a dire che «ora dobbiamo voltare pagina» perché «questo centrosinistra è finito». Intanto, per sabato è stata convocata l’assemblea costituente del Pd. All’ordine del giorno, le dimissioni del segretario Walter Veltroni e gli adempimenti statutari conseguenti.
IL RIMPIANTO - Veltroni esordisce parlando di «rimpianto», per un'idea buona ma partita troppo tardi, perché «il Pd doveva nascere già nel 1996», dopo la vittoria elettorale di Prodi. «L'idea dell'Ulivo - ha spiegato Veltoni - era la possibilità di cambiare il Paese, cosa che il governo Prodi, che al suo interno aveva due ministri che sarebbero poi diventati presidenti della Repubblica, aveva iniziato a fare. E se l'esperienza di quel governo fosse andato avanti tutto il corso della storia italiana sarebbe stato diverso». E oggi che il Partito democratico è nato, ha spiegato il leader diessino, è la «realizzazione di un sogno» perché dal dopoguerra «non c'è mai stato un ciclo veramente riformista». L'Italia, secondo Veltroni, è un po' quella da Gattopardo, una nazione che non riesce a cambiare mai nel suo assecondare vocazioni e privilegi. «E qui sta, secondo me, la sfida principale del Partito democratico, la sua vocazione maggioritaria: conquistare il consenso con una maggioranza, perché dal 1994 noi non abbiamo mai avuto la maggioranza degli italiani ma è a quella che dobbiamo puntare perché se non abbiamo una grande forza riformista, questo Paese non cambierà mai».
IL PD VINAVIL E L'EGEMONIA DI BERLUSCONI - «Non deve, il Pd, essere una sorta di Vinavil che tiene incollata qualunque cosa. E' nella società che deve essere chiara la nostra proposta - ha aggiunto Veltroni -. La destra ha vinto, il successo del Pdl per noi è difficile da capire. Berlusconi ha vinto una battaglia di egemonia nella società, perché ha avuto i mezzi e la possibilità anche di stravolgere i valori della società stessa, costruendo un sistema di disvalori contro i quali bisogna combattere con coraggio, anche quando il vento è più basso ma sapendo che se la vela è posizionata nella giusta direzione, prima o poi arriverà il vento alle spalle che spingerà in avanti». Ma il vero problema, secondo Veltroni, non è la politica di Berlusconi, bensì il fatto che questa posizione riesca a conquistare consenso.
(Continua...)
A. Sa.
Corriere della Sera 18 febbraio 2009
Giannini: "Al Pd serve un leader forte che tenga a bada gli alleati"
di di Antonella Loi
17 Febbraio 2009 - La Sardegna passa di mano: il Pdl stravince e Soru torna a casa. Un risultato elettorale, quello del centrosinistra nell'Isola, che non ha il sapore di una semplice sconfitta ma che segna l'apice di una profonda crisi del Pd. Lo si capisce già nella mattinata di martedì. Il Coordinamento riunito d'urgenza in via Sant'Andrea delle Fratte a Roma. La voce trapela in tarda mattinata: Veltroni si è dimesso. Il gruppo dirigente gli rinnova la fiducia ma lui tira dritto: "Mi dimetto per salvare il Pd". Si apre un periodo politicamente e tecnicamente molto difficile per il Partito Democratico. "E' l'epilogo di una crisi di identità che il Pd sta vivendo da mesi - spiega Massimo Giannini, vicedirettore del quotidiano La Repubblica -, che era già contenuta nelle elezioni politiche del 13 aprile dello scorso anno e che semmai si è aggravata con la doppia disfatta in Abruzzo e adesso anche in Sardegna".
Cronaca di una "morte" annunciata?
"Sì, credo fosse un risultato annunciato. Anche se quello che colpisce è la dimensione di questa sconfitta perché con la crisi economica acuta e con le prime crepe all'interno della maggioranza di governo era legittimo immaginare che il Pdl non avrebbe vinto con un margine così ampio".
Veltroni lascia, un atto dovuto?
"Veltroni esce di scena e lo fa chiamando tutti i rappresentanti del Pd all'assunzione delle proprie responsabilità, perché è vero che il primo responsabile della crisi del partito è il leader, ma è anche vero che è tutto il gruppo dirigente ad essere chiamato in causa. E quindi tenendo duro su queste dimissioni che tutto il coordinamento gli ha chiesto di ritirare chiama tutti all'assunzione di una responsabilità che deve essere necessariamente collettiva. Poi esiste un problema di chi possa assumersi la responsabilità della leadership di un partito che è appena nato e che è ancora da fare.
Ma il tempo stringe, le Europee sono dietro l'angolo.
"A questo punto la cosa assolutamente necessaria credo sia quella di arrivare alle Europee con un congresso straordinario nel quale si metta a verifica sia il progetto politico sia la leadership con un approccio moderno che richiede un partito moderno e contendibile. Se ci sono difficoltà e il congresso non si può fare allora si facciano delle primarie vere, non quelle un po' bulgare fatte in questi anni. Cioè delle consultazioni nelle quali si candidino tutti coloro che pensano di poter ambire a guidare questo processo di rinnovamento".
Ma è solo una questione di gestione o lo stesso progetto del Pd è in crisi?
"Penso che alla base della crisi del Pd ci siano stati un insime di problemi. In primis lo start up di un progetto politico così ambizioso che deve mettere insieme le vecchie culture ex democristiane ed ex comuniste in un contenitore nuovo e scollegato da quelle eredità pesanti e, sotto un certo punto di vista non riproponibili, sconta necessariamente nella prima fase delle difficoltà fisiologiche. La patologia sta nel fatto che nella definizione di questo progetto politico sono mancate secondo me scelte precise dal punto di vista dei contenuti programmatici, perché su troppe questioni il Pd ha balbettato e balbetta, dall'economia alla bioetica al fenomeno dell'immigrazione e fino al federalismo. E poi anche un'insufficiente capacità di manutenere questa leadership che effettivamente è un problema che riguarda Veltroni e che non si può risolvere dicendo sempre e solo che qualcuno ti rema contro. La forza e l'autorevolezza di un leader si misura anche con la capacità di tenere a freno le correnti interne e comunque di saperle ricondurre ad unità ogni volta che il partito è chiamato a ricomporre controversie. Cosa che finora il Pd non è riuscito a fare: il caso Englaro e il testamento biologico lo dimostrano".
Il Pd dovrà confrontarsi anche con il problema delle alleanze a cominciare dall'Idv che se da una parte aiuta, dall'altra frena la corsa dei Democratici. E poi D'Alema che ormai non fa più mistero di voler dialogare con i pariti di sinistra.
"Il problema delle alleanze è sicuramente importante. La scelta fatta da Veltroni in campagna elettorale sull'autosufficenza del Pd, penso che fosse una sceltagiusta e innovativa e quindi coerente con le scelte politiche che il Pd voleva darsi. Dove è stato l'errore? In una declinazione imperfetta di questa scelta. Perché se si sceglie di andare da soli alle elezioni si va da soli. Viceversa per ragioni legate secondo me ad un notevole tatticismo elettorale, Veltroni ha fatto un mezzo accordo con i Radicali, un mezzo accordo con Di Pietro tragliando fuori, a quel punto incomprensibilmente, tutta la sinistra radicale. E' quindi un messaggio poco chiaro, da quell'errore tutti gli altri. Quindi Di Pietro ha potuto stare in un'alleanza a geometrie variabili, un giorno si dimostrava alleato di Veltroni e l'altro lo sabotava scavalcandolo sui versanti della legalità e della giustizia. E rispetto a questa strategia di sabotaggio di Di Pietro, Veltroni non ha mai saputo contrapporre una linea di fermezza che costringesse questo alleato un po' spurio a prendere una decisione una volta per tutte: o con me o fuori. Un'alleanza pesante dunque che si dimostra nei risultati elettorali: in Abruzzo ma anche in sardegna l'Idv ha aumentato i suoi consensi a scapito del Pd. Politica delle alleanze insomma condotta male".
Il crollo in Sardegna è arrivato nonostante l'alleanza con i partiti di sinistra.
"Esatto, il tentativo unionista per recuperare lo spazio perduto si dimostra insufficiente perché soru era sostenuto anche da Rifondazione comunista e dalle altre forze di sinistra. Nonostante questo il risultato è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi. Oggi come oggi troppo è stato perduto sul piano elettorale per poter pensare di tornare alla solita grande coalizione o "caravanserraglio", perché ormai non basta più per sconfiggere il centrodestra che ha costruito un blocco sociale, stando ai risultati che abbiamo di fronte, non scalfibile dal centrosinistra".
Nell'ultimo risultato elettorale, secondo lei, quanto ha influito la crisi del Pd e quanto invece le difficoltà di un governatore uscente?
"Su questo non sento di pronunciarmi, non ho vissuto abbastanza da vicino la campagna elettorale in Sardegna. Però c'è stato sicuramente un concorso di fattori. Anche per il fatto che Berlusconi si è speso in prima persona durante tutta la campagna elettorale: il voto da una dimensione regionale ha assunto una dimensione nazionale e politica. Quindi in questo senso sul Pd hanno sicuramente pesato le difficoltà più generali del partito. Tuttavia credo che ci sia anche una componente locale che non può essere sottaciuta e che probabilmente riguarda anche questi cinque anni del governatorato di Soru. Anche se da quello che dimostrano i voti alla lista del presidente, questi ha continuato a mantenere, parzialente, un piccolo tesoretto di consensi che nel 2004 gli consentì di battere Pili, tutti suoi e non della coalizione di centrosinistra che lo sosteneva. Tuttavia mi sembra che anche questo tesoretto si sia sensibilmente ridotto"..
Soru veniva accreditato, non ultimo dal Corriere della Sera, come papabile alla guida del Pd. E' un'ipotesi secondo lei ancora in piedi?
"Io direi proprio di no, nel senso che almeno nei paesi normali dal punto di vista politico quando un candidato perde le elezioni si fa da parte. Poi si può discutere del fatto che l'Italia non sia un paese normale da molti anni, perché molti leader politici hanno perso la partita e poi hanno continuato a restare sulla scena e in molti casi anche a vincere: Berlusconi da questo punto di vista è un fuoriclasse assoluto. Però non è solo lui, ricordiamoci anche Rutelli e lo stesso Veltroni. Mi pare che in Italia nessuno, anche in presenza di una sconfitta più o meno sonora, si rassegni ad uscire di scena e lasciare campo libero a qualcun'altro. Tuttavia credo che sarebbe quanto meno opportuno che questa abitudine predesse piede anche in Italia. E quindi, stante questo principio, io credo che se mai c'è stata una possibilità che Soru potesse ambire ad una competizione sul piano nazionale, dopo il risultato della Sardegna, credo che questa via diventi assultamente impercorribile".
Nessun commento:
Posta un commento