mercoledì 1 luglio 2009

Viareggio:I resti delle vittime arse vive e i racconti dei sopravvissuti «Come una bomba entrata nelle case»

Le sagome di cenere tra le macerie
del quartiere fantasma

VIAREGGIO - Al matti­no il fumo si dirada e rende visibili le macchie sull’asfalto. Le impron­te dei piedi insanguinati sono ri­maste impresse sulla strada, tra le fiamme di via Ponchielli e l’erba dei giardinetti di fronte. Una scia che disegna cinque passi profondi di una persona adulta e si inter­rompe con l’orma di due piedi più piccoli, da bambino. Come se la fu­ga si fosse interrotta in quel pun­to, sul terreno diventato una lastra bollente che strazia le carni e obbli­ga a una resa disumana. Nessuno riesce a togliersi dagli occhi l’ombra nera davanti al nego­zio d’angolo che vende «scale di ogni tempo per interni ed ester­ni ». Era un bimbo, quell’alone per terra. Il maestro Gianni Donati rac­conta che l’hanno appoggiato lì, avvolto in una coperta ignifuga. «Muoveva solo un piede, a scatti. Non so dirti cosa sembrava. Un pezzo di carbone. Poi ha smesso di muoversi».

È fermo a cavallo della bicicletta, indica l’altro marciapie­de della via Aurelia nord, un’altra serie di aloni scuri circondati da fiale e guanti di lattice che testimo­niano di un inutile aiuto. Il più grande è la sagoma del giovane marocchino che abitava all’inizio di via Ponchielli. Lavorava nei can­tieri qui intorno. Nessuno si ricor­da il suo nome. «Uno bravo, perbe­ne. Mi sono chinato per dirgli di re­sistere. Poi ho visto gli occhi. Sta­va morendo». La Bottega nuova non è diventa­to un quartiere fantasma. Sulla via Aurelia nord, per una volta isolata dalle auto, c’è tanta gente. Che piange, si dispera, si abbraccia. I pochi che ancora sperano si vergo­gnano a mostrare i loro sentimen­ti agli altri. Gli sguardi di chi abita­va in queste poche strade strette tra la ferrovia e lo snodo per la tan­genziale di Largo Risorgimento pe­rò sono tutti uguali. Mostrano il vuoto di chi ha visto e provato co­se che mai dovrebbero attraversa­re le nostre vite. «Quella cosa pren­deva tutti quelli che scappavano. Si mangiava le persone». Anna Puosi ha una espressione allucina­ta e assente. Sua nuora la sorregge, andiamo via, le dice, non ti fa bene stare qui. Si mangiava le persone, ripete lei, come una cantilena. «Il rumore, non riesco a toglierlo dal cervello. Come quando si apre una valvola, ma molto più forte». Mau­rizio Pescaglini si mette le mani sulle orecchie, per tapparle e non sentire più quel fischio che rim­bomba ancora nella sua testa. La Bottega nuova oggi è un quar­tiere popolato da fantasmi. Prigio­nieri di una immagine, di un suo­no, di qualcosa che li costringe a rivivere in continuazione questa mezzanotte meno dieci a Viareg­gio. Una trentina di case trasforma­te in una piccola Bhopal circonda­ta da un fuoco «strano» che inse­gue gli esseri umani e da un fumo chimico che ancora adesso, e sono passate quasi 24 ore, brucia occhi e gola.

E via Amilcare Ponchielli or­mai è un fossile carbonizzato, buo­no solo per illustrare il disastro. L’intonaco delle case è annerito fin dalla base. Le auto al garage do­po il civico 6 sono tutte bruciate. La pareti crollate rivelano fram­menti della vita com’era prima che tutto accadesse. Letti sfatti, un por­ta cd verticale che penzola sul mar­ciapiede, vestiti da donna sparsi sulla strada. Le macerie sovrasta­no la vista dei due palazzi crollati. Sembra un terremoto al quale si è aggiunto un incendio che ha reso il panorama uniforme, virato in ne­ro. Via Ponchielli è stretta, sovrasta­ta dall’Aurelia nord che scorre pa­rallela e quasi la isola dal resto del­la città. Era una delle ultime vie fat­te di case viareggine, ormai quasi scomparse. Piccole abitazioni, am­mezzato con le inferriate sulle fine­stre che danno sulla strada e piano superiore. Davanti l’orto, dietro una piccola corte che nelle estati degli anni Sessanta, quando non c’erano ancora tanti hotel, veniva affittata ai turisti che arrivavano da fuori. Non resta più niente. Non se n’è salvata una, di quelle ca­sine nella zona più popolare della città. Il capannone della carrozze­ria resta in piedi per miracolo, le vetrate sono esplose per il calore e hanno sparato schegge per decine di metri. Laric, il negozio che a me­tà della via noleggiava impianti di amplificazione per le feste, sembra sia stato sventrato da una bomba. «Manco fossimo a Beirut» dice un volontario della Protezione civile che due mesi fa era sulle macerie dell’Aquila. Il paragone regge. Vista dall’al­to, questa strada non è più niente, solo un cumulo di macerie, colli­nette di detriti sui quali si muovo­no circospetti i soccorritori.

La ter­razza affacciata sulle rovine è pro­prietà di Paolo De Vitis e della sua famiglia. Lui c’era. Ha visto l’espressione del ragazzo che dalla finestra di fronte gli chiedeva aiu­to, lo implorava di salvarlo. «E io capace di dirgli solo stai tranquil­lo, abbiamo chiamato il 118. In mezzo, tra me e lui, c’erano le fiam­me, vampate che continuavano a salire, dal sotto al sopra». Il suo vi­cino di casa, si chiama Del Lupo, ha strappato la pompa antincen­dio dalle scale e ha cercato di butta­re acqua sulle case di sotto. I tetti non ci sono più, sono crollati per primi. Versava acqua, per cercare di aiutare due donne che intanto morivano. Da sopra si vede un vas­soio con l’aquila della Fernet Bran­ca fuso per il calore, la parabola della pay-tv schiantata sul tavolo della sala da pranzo. Le abitazioni di De Vitis e De Lupo sono tra le poche case private sul lato destro di via Aurelia Nord. Adesso sem­bra quasi blasfemo dirlo, ma la scorsa notte poteva andare molto peggio. La piccola fortuna che ha salvato molte vite è data dalla con­formazione di questi edifici che una volta erano fondi commercia­li. Quegli stanzoni lunghi e stretti hanno fatto muro alle fiamme di via Ponchielli, una specie di gran­de porta taglia fuoco che ha circo­scritto l’incendio ad una sola via del quartiere. Il fondo dove Massi­miliano Lippi stampa e vende rivi­ste e testi scolastici è stato la sal­vezza di un paio di gatti e di un ca­gnolino.

Il muro è crollato su una pila di pubblicazioni per bambini, Piccole canaglie e Mirtillo coni­glio. Gli animali sono riusciti a far­si largo tra i calcinacci. I loro pro­prietari non hanno avuto la stessa fortuna. Gli esseri umani che invece pos­sono raccontare di questa notte maledetta fanno sosta sull’Aurelia nord al bar Moreno, che esiste dal 1945 e prende il nome dal suo pro­prietario. Anche lui ha qualcuno da ricordare, un fratello anziano che è morto insieme alla sua ba­dante. Stringe le mani, abbraccia chi fa le condoglianze. «Abbiamo perso tutti qualcosa. Un familiare, un amico, un conoscente. Molti di noi non hanno più la casa. Ma al­meno siamo vivi». Le persone in­torno annuiscono. Dall’altra parte della strada c’è un ragazzo con ma­glietta nera e orecchino che osser­va la scena. Si chiama Mario, ha 21 anni. Da ore aspetta di sapere qual­cosa del suo fratello più piccolo, sa­pendo bene che non arriverà nes­suna buona notizia. «Dicono che è una fatalità pazzesca, che poteva anche andare peggio. Io invece di­co che non so spiegarmi come mai sia toccata a noi». A tarda sera risa­le la via e raggiunge il cordone di polizia. Non chiede, nessuno gli ri­sponde. Si gira e torna indietro, evitando con cura di calpestare le ombre sull’asfalto.
Marco Imarisio
corriere della sera 01 luglio 2009

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