Le sagome di cenere tra le macerie
del quartiere fantasma
VIAREGGIO - Al mattino il fumo si dirada e rende visibili le macchie sull’asfalto. Le impronte dei piedi insanguinati sono rimaste impresse sulla strada, tra le fiamme di via Ponchielli e l’erba dei giardinetti di fronte. Una scia che disegna cinque passi profondi di una persona adulta e si interrompe con l’orma di due piedi più piccoli, da bambino. Come se la fuga si fosse interrotta in quel punto, sul terreno diventato una lastra bollente che strazia le carni e obbliga a una resa disumana. Nessuno riesce a togliersi dagli occhi l’ombra nera davanti al negozio d’angolo che vende «scale di ogni tempo per interni ed esterni ». Era un bimbo, quell’alone per terra. Il maestro Gianni Donati racconta che l’hanno appoggiato lì, avvolto in una coperta ignifuga. «Muoveva solo un piede, a scatti. Non so dirti cosa sembrava. Un pezzo di carbone. Poi ha smesso di muoversi».
È fermo a cavallo della bicicletta, indica l’altro marciapiede della via Aurelia nord, un’altra serie di aloni scuri circondati da fiale e guanti di lattice che testimoniano di un inutile aiuto. Il più grande è la sagoma del giovane marocchino che abitava all’inizio di via Ponchielli. Lavorava nei cantieri qui intorno. Nessuno si ricorda il suo nome. «Uno bravo, perbene. Mi sono chinato per dirgli di resistere. Poi ho visto gli occhi. Stava morendo». La Bottega nuova non è diventato un quartiere fantasma. Sulla via Aurelia nord, per una volta isolata dalle auto, c’è tanta gente. Che piange, si dispera, si abbraccia. I pochi che ancora sperano si vergognano a mostrare i loro sentimenti agli altri. Gli sguardi di chi abitava in queste poche strade strette tra la ferrovia e lo snodo per la tangenziale di Largo Risorgimento però sono tutti uguali. Mostrano il vuoto di chi ha visto e provato cose che mai dovrebbero attraversare le nostre vite. «Quella cosa prendeva tutti quelli che scappavano. Si mangiava le persone». Anna Puosi ha una espressione allucinata e assente. Sua nuora la sorregge, andiamo via, le dice, non ti fa bene stare qui. Si mangiava le persone, ripete lei, come una cantilena. «Il rumore, non riesco a toglierlo dal cervello. Come quando si apre una valvola, ma molto più forte». Maurizio Pescaglini si mette le mani sulle orecchie, per tapparle e non sentire più quel fischio che rimbomba ancora nella sua testa. La Bottega nuova oggi è un quartiere popolato da fantasmi. Prigionieri di una immagine, di un suono, di qualcosa che li costringe a rivivere in continuazione questa mezzanotte meno dieci a Viareggio. Una trentina di case trasformate in una piccola Bhopal circondata da un fuoco «strano» che insegue gli esseri umani e da un fumo chimico che ancora adesso, e sono passate quasi 24 ore, brucia occhi e gola.
E via Amilcare Ponchielli ormai è un fossile carbonizzato, buono solo per illustrare il disastro. L’intonaco delle case è annerito fin dalla base. Le auto al garage dopo il civico 6 sono tutte bruciate. La pareti crollate rivelano frammenti della vita com’era prima che tutto accadesse. Letti sfatti, un porta cd verticale che penzola sul marciapiede, vestiti da donna sparsi sulla strada. Le macerie sovrastano la vista dei due palazzi crollati. Sembra un terremoto al quale si è aggiunto un incendio che ha reso il panorama uniforme, virato in nero. Via Ponchielli è stretta, sovrastata dall’Aurelia nord che scorre parallela e quasi la isola dal resto della città. Era una delle ultime vie fatte di case viareggine, ormai quasi scomparse. Piccole abitazioni, ammezzato con le inferriate sulle finestre che danno sulla strada e piano superiore. Davanti l’orto, dietro una piccola corte che nelle estati degli anni Sessanta, quando non c’erano ancora tanti hotel, veniva affittata ai turisti che arrivavano da fuori. Non resta più niente. Non se n’è salvata una, di quelle casine nella zona più popolare della città. Il capannone della carrozzeria resta in piedi per miracolo, le vetrate sono esplose per il calore e hanno sparato schegge per decine di metri. Laric, il negozio che a metà della via noleggiava impianti di amplificazione per le feste, sembra sia stato sventrato da una bomba. «Manco fossimo a Beirut» dice un volontario della Protezione civile che due mesi fa era sulle macerie dell’Aquila. Il paragone regge. Vista dall’alto, questa strada non è più niente, solo un cumulo di macerie, collinette di detriti sui quali si muovono circospetti i soccorritori.
La terrazza affacciata sulle rovine è proprietà di Paolo De Vitis e della sua famiglia. Lui c’era. Ha visto l’espressione del ragazzo che dalla finestra di fronte gli chiedeva aiuto, lo implorava di salvarlo. «E io capace di dirgli solo stai tranquillo, abbiamo chiamato il 118. In mezzo, tra me e lui, c’erano le fiamme, vampate che continuavano a salire, dal sotto al sopra». Il suo vicino di casa, si chiama Del Lupo, ha strappato la pompa antincendio dalle scale e ha cercato di buttare acqua sulle case di sotto. I tetti non ci sono più, sono crollati per primi. Versava acqua, per cercare di aiutare due donne che intanto morivano. Da sopra si vede un vassoio con l’aquila della Fernet Branca fuso per il calore, la parabola della pay-tv schiantata sul tavolo della sala da pranzo. Le abitazioni di De Vitis e De Lupo sono tra le poche case private sul lato destro di via Aurelia Nord. Adesso sembra quasi blasfemo dirlo, ma la scorsa notte poteva andare molto peggio. La piccola fortuna che ha salvato molte vite è data dalla conformazione di questi edifici che una volta erano fondi commerciali. Quegli stanzoni lunghi e stretti hanno fatto muro alle fiamme di via Ponchielli, una specie di grande porta taglia fuoco che ha circoscritto l’incendio ad una sola via del quartiere. Il fondo dove Massimiliano Lippi stampa e vende riviste e testi scolastici è stato la salvezza di un paio di gatti e di un cagnolino.
Il muro è crollato su una pila di pubblicazioni per bambini, Piccole canaglie e Mirtillo coniglio. Gli animali sono riusciti a farsi largo tra i calcinacci. I loro proprietari non hanno avuto la stessa fortuna. Gli esseri umani che invece possono raccontare di questa notte maledetta fanno sosta sull’Aurelia nord al bar Moreno, che esiste dal 1945 e prende il nome dal suo proprietario. Anche lui ha qualcuno da ricordare, un fratello anziano che è morto insieme alla sua badante. Stringe le mani, abbraccia chi fa le condoglianze. «Abbiamo perso tutti qualcosa. Un familiare, un amico, un conoscente. Molti di noi non hanno più la casa. Ma almeno siamo vivi». Le persone intorno annuiscono. Dall’altra parte della strada c’è un ragazzo con maglietta nera e orecchino che osserva la scena. Si chiama Mario, ha 21 anni. Da ore aspetta di sapere qualcosa del suo fratello più piccolo, sapendo bene che non arriverà nessuna buona notizia. «Dicono che è una fatalità pazzesca, che poteva anche andare peggio. Io invece dico che non so spiegarmi come mai sia toccata a noi». A tarda sera risale la via e raggiunge il cordone di polizia. Non chiede, nessuno gli risponde. Si gira e torna indietro, evitando con cura di calpestare le ombre sull’asfalto.
Marco Imarisio
corriere della sera 01 luglio 2009
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